In un recente scritto pubblicato nella rubrica “Il caffè” del Corriere della sera, Massimo Gramellini argomentava, con la sua solita ironia, su come vi sia stata un capovolgimento di valori: ad esempio, prima del coronavirus i “furbetti” erano coloro che timbravano il cartellino e poi si assentavano o addirittura non si presentavano al lavoro, ora furbetti sono quelli che trasgrediscono alle disposizioni che impongono di “restare a casa”. E’ solo un esempio.
Ora, trasferendo questa idea alla pratica collaborativa, trovo che, pur non potendosi parlare di un vero capovolgimento, essa comporti un mutamento nel concepire il ruolo di cliente, da un lato, e di avvocato, dall’altro.
Pensiamo all’etimologia delle parole.
Avvocato: deriva dal participio passato di advocare, ovvero chiamare, chiamare in giudizio. L’avvocato è, quindi, chiamato.
Cliente: secondo il dizionario di etimologico Devoto-Oli l’etimologia della parola è incerta. Pare, tuttavia, che il vocabolo derivi dal latino cluo, a sua volta derivante dal greco klyo, ovvero mi metto all’ascolto, obbedisco. Pertanto, cliente è colui che ubbidisce, colui che ascolta.
Il rapporto avvocato/cliente è dunque il rapporto tra colui che, in quanto chiamato, si impegna a guidare con il proprio consiglio e le proprie direttive colui che lo ha chiamato e che pertanto si trova nella condizione di ascoltare e ubbidire.
La pratica collaborativa mi pare che abbia quasi capovolto il ruolo del cliente, poiché egli non è più colui che ascolta e ubbidisce soltanto; è l’avvocato che assume maggiormente l’impegno di ascoltare e ubbidire.
Morale: la vita è imprevedibile.